Er Lupo Panaro

Se ce ripenso me viè na paura che casco giù dal letto….

“Bussare coi piedi” ho scoperto essere un’usanza antica regolamentata con pene severissime. Ai tempi dell’imperatore Commodo la condanna per chi si presentava in una villa patrizia senza un dono era di partecipare ai giochi al Colosseo da gladiatore con entrambe le mani legate ad un cesto di frutta. Anche mia nonna diceva sempre di non presentarsi a casa di qualcuno a mani vuote. Così, con in mano un vassoio di pastarelle, busso coi piedi. Apre la porta, con il suo sguardo gentile e sorriso tenero, la signora Caterina D’Ascenzo, per tutti la Sora Rina, nata nell’ottobre del 1933, in pieno regime fascista e nove mesi dopo la nomina di Hitler a cancelliere.

Dunque Sora Rina me la racconti la storia di questo incontro spaventoso?

-Chicca nun me lo fa ricordà che casco per terra. Mi madre c’aveva nò sgabuzzino dopo la piazza. Quello era proprio uno sgabuzzino, io tante volte c’annavo a portà i barattoli. Mi madre me mannava sempre a me perché loro c’avevano paura. Tutti i fiji che c’aveva mamma, tutti paura c’avevano. Quer periodo c’avevamo tutti paura. Pure mi padre c’avuto paura dell’ombra sua al ponte a Trastevere sai? Noi abitavamo a Trastevere, a Vicolo del Cinque. 

– Quindi è successo a Trastevere?

– No no, a Tiburtino III, c’hanno mannato al lotto 12. 

– Chi?

– I fascisti. 

-È vero. Tiburtino III è un’ex borgata di Roma costruita ad opera dell’Istituto fascista autonomo delle case popolari sui terreni della famiglia Nardi. Nel 1936 iniziano le assegnazioni delle case alle famiglie che vivevano in baracche o in altre parti della città. Il lotto 12, dove sei andata ad abitare tu, nasce nel 1940 dopo gli sventramenti del centro storico e la tua famiglia è una delle tredici famiglie provenienti da Trastevere e trasferite lì. 

-Ecco. In tutti i modi a Tiburtino ci stanno i corridoi lunghi. Ci stanno cinque famiglie. Io una poi un’altra, un’altra, un’altra e mi fratello Ettore. Mi padre me mannava a prende er vino lì. ‘N signore de ste famije, con la moglie, aveva fatto i tavolinetti. Venivano a giocà a carte e davano er vino. All’epoca c’erano i signori che annavano a giocà a carte e se pijavano ‘n goccetto de vino. Mica se potevano comprà i boccioni? 

– Quindi tuo padre ti ha mandato a prendere il vino. Ti ricordi il nome di questi signori?

– Avoja. Lei si chiamava Crispina e lui si chiamava Motto. Casa mia non era lontana però c’era la piazza. Io so uscita che era quasi scuro e ce so ita proprio pe prende er vino a mi padre, mi padre era un pittore. Hai visto la chiesa a Tiburtino? Ci sei stata mai?

– No, dentro non ci sono mai stata.

– Eh entrice. Le colonne che ce stanno nun so de marmo, ha fatto er marmo mi padre col pennello. Eh, ma mi padre era bravissimo. Quando hanno fatto quer film su Roma che s’è bruciata, hanno chiamato mi padre pe’ fa lo sfondo. Hanno affittato il cinema.

[Dove oggi c’è la fermata metro di Pietralata prima si trovava il cinema Lux. L’edificio si vede nel film Cabiria di Federico Fellini ]

Allora sei andata a prendere il vino e cosa è successo?

– Mi padre m’ha dato ‘na boccetta da ‘empì cor vino. Io so uscita e li c’era la casetta. Questi c’aveveno due, tre tavolinetti che avevano comprato e venivano quelli a giocà a carte. Quelli tanto pe’ campà perché erano già anziani i padroni. Già c’avevano l’età. Ma pe’ guadagnà quarche cosetta, sinnò manco magnaveno. Annavano là a mezza lira, quello che pijava ‘na boccetta magari pagava ‘na lira e mezza. Capito com’era all’epoca? Che c’erano i soldi d’adesso? Ma chi l’ha visti mai? Poi eravamo tanti fiji noi, avoja tanti fiji. Mi madre n’ha fatti undici. Roberto, Claudio, Angelino, Ettore, Franco, Rosa, Silvana, Anna, nun me ricordo manco tutti i nomi, insomma ne eravamo tanti. Uno che se chiamava Roberto je morto a tre anni a mi madre con l’infantijoli. 

– Con cosa?

– L’infantijoli, all’epoca c’era.

[Gli “infantijoli” erano le convulsioni infantili. A Roma è rimasto il detto: “Robba da fa venì l’infantijoli” per indicare qualcosa da far perdere il controllo]

– Noi stavamo a guardallo a sede, stava pe morì. Annavano tutti dentro al rifugio.

– Il rifugio per i bombardamenti?

– Embe certo. Era estate.

– Eh si, i bombardamenti del luglio del 1943. San Lorenzo fu il quartiere più colpito insieme al Tiburtino, al Prenestino, al Labicano, al Casilino, al Tuscolano e al Nomentano. Le bombe alleate causarono circa 700 morti e più di 1500 feriti.

 – In tutti i modi mi madre nun ce poteva annà al rifugio, c’aveva e’ragazzino che stava malissimo. Be’ te vojo di che mi madre, porella, con tutto che era piccoletta, ha acchiappato er pupo e se l’è portato dentro ar rifugio. Era morto. Noi a urlà: “Mà cori, è morto ormai. Cori, cori mà, ‘nnamo, ‘nnamo via che stanno a bombardà”. Mi madre dice: ”Oh, questo pure che è morto è sempre mi fijo”. Se l’è portato appresso e semo iti la, semo stati là. Quanno semo usciti nun c’avevamo manco ‘n soldo pe’ magnà. Ma i soldi nun li nominavamo proprio. Nun c’avevamo niente pe’ magnà e andavamo a fregà le spighe de grano. Le mettevamo sopra ‘na coperta e cor bastone le sbattavamo e pe’ fa così m’è rimasto er segno, guarda. I meloni quanno li raccoglievano rimanevano quelli mezzi guasti? Ecco, noi li portavamo a casa. Poi quann’è stato dell’aereo a centocelle. Era n’aereo che stava a passà ed è cascato. Perché c’era l’aeroporto de Centocelle prima.

– Sai che l’aeroporto di Centocelle è stato il primo aeroporto italiano? Durante la Seconda Guerra mondiale, proprio per l’importanza strategica, l’aeroporto è stato oggetto di molti bombardamenti aerei e dopo lo sbarco ad Anzio degli alleati diventa la base dell’aviazione militare tedesca.  

– Eh, in tutti i modi diceveno che se portavi le verdure, i facioli, ‘e cipolle, i finocchi, er cavolo fiore, insomma quarche cosa che trovavi te davano er burro. Noi subito con Fausta, Simona, la fija da’ Sora Sabella, la fija de Filomena, la Sora Concetta e tutte le amiche mie che abitavano vicino a me ce semo ite. Io annavo avanti sempre. Annamo a trova a’ verdura, avemo fatto ‘na faticata li mortacci loro. Annamo là, io vado davanti e dico: “Che je serve? Er sedano, ‘a cipolla, l’aglio, a’ patata?”. “Noi prendere tutto, noi dare burro, dare burro”. “Embè dacce sto burro”. Venimo a casa a Tiburtino, che da Centocelle a Tiburtino avemo pure camminato. Vado a casa da mi madre, c’aveva du stanzette piccolissime, ce dormivamo in tredici. Mamma ha aperto ‘n pezzo de muro e c’ha messo ‘n letto sennò ‘ndo dormivamo. Lo va a assaggià e non era burro ma semolino. Semo iti là n’artra vorta a Centocelle e c’hanno dato er burro, tutto legato e ‘nturcinato come s’usava all’epoca. Poi quando so entrati l’americani coi carrarmati noi stavamo davanti la chiesa a Tiburtino.

– Sono entrati a Roma a giugno del 1944. Dopo quasi dieci mesi di occupazione nazifascista finalmente hanno liberato la città. Eravate contenti eh? 

– Eh si. Di fatti tutta la gente stava de’ fori, devi sapè Chiara che quanno nun c’hai da magnà pensi che ce danno da magnà. Eravamo tutti poveracci, eravamo ‘na borgata grande. Te dico la verità, tutti ‘n piedi a aspettà e questi tiravano le gomme americane. Li mortacci vostra le gomme americane, so mesi che nun magnamo, datece er pane. Poi hanno tirato le pagnotte. Hanno tirato pure le bombe l’americani però. Ma i tedeschi erano fiji de ‘na mignotta. C’avevano messo i barattoloni con dentro la benzina sotto le case nostre. Poi cor tubo accennevano e zompava tutto. C’era un tedesco, porello un ragazzino, era giovane, e c’aveva ‘n cavallo cor caretto che portava sti barattoloni. Mo sto ragazzino passa nel prato ed è zompato per aria lui, er cavallo e il caretto. Poi nun potevi parlà, dovevi parlà sordo muta perché se te sentivano te sparavano. Poi quanno che stavi sotto casa nun potevi manco chiede ‘n pezzo de pane che se lo pijavano loro. Se c’avevamo ‘na coperta la dovevamo mette davanti la finestra. Guarda chicca n’avemo passate tante durante la guerra. N’avemo magnato mai. Quando mamma faceva ‘na cosa bona a papà che era stanco pe’ lavoro noi litigavamo pe leccà er piatto. Ormai chicca c’ho 87 anni, mamma mia.

– Ma questo incontro spaventoso me lo racconti?

– Se ce ripenso me viè na paura che casco giù dal letto. Faceva UHHH, UHHH. Come se fosse ‘n cane, ma n’era ‘n cane, i cani nun c’erano, se li magnavamo. Aspe, famme mette ‘n minuto a sede. N’avemo passate proprio tante ma quando so ita a prende er vino a mi padre, quello mamma mia chi se lo scorda.

– Quindi tuo padre ti ha mandato a prendere il vino dalla signora Crispina e dal marito Motto. E cosa è successo?

– Io c’ho paura, io nun ce vado, io nun ce vado. Alla fine ce so ita io. Be, allora vado co ‘na boccetta piccola e prendo er vino. Manco arrivo sotto alla piazza che sento ‘n rumore. Mentre stavo attraversà er pezzetto de strada pe’ arrivà a casa mia, ‘n mezzo alle colonne vedo spuntà uno tutto piegato che me correva appresso. Aiuto, il lupo panaro, il lupo panaro.

– Il lupo mannaro?

– Eh, il lupo panaro. Me so messa a urlà: “Mamma apri la porta che c’è er lupo panaro. Apri mamma, apri”. Mi madre ha aperto la porta e l’ha richiusa e quello s’è messo a raschià co’ le mani la porta. Però er vino a papà nun glie l’ho portato più perché l’ho buttato tutto e so corsa.  

– Ma questo lupo mannaro chi era una persona?

– Era ‘na persona che girava. J’hanno levato er coso dentro lo stomaco e j’ hanno messo quello del.. come se chiameno..lo stomaco de ‘n animale. Pe’ questo me correva appresso perché me voleva mozzicà. 

– Quindi abitava vicino casa tua?

– Si, lui stava proprio alla piazza, all’ultima casa. 

– Ma il nome di questo signore te lo ricordi?

– Giulio, però lo chiamavano sempre er lupo panaro. Perché era come un lupo, s’nchinava tutto così. Era anziano, camminava tutto così. 

– Il cognome te lo ricordi?

– No, non me lo ricordo. È stato tanto tempo. Mamma mia guarda, si me lo ricordo casco dal letto. 

– Insomma ti sei spaventata?

– Spaventata? È poco. Tu calcola che quanno c’hai dieci, undici anni sei ‘na ragazzina ancora. In tutti i modi ne avemo passate tante chicca. Non te dico quanti topi avemo visto e quanti se ne semo magnati. Guarda si me ricordo tutte ste cose faccio ‘n libro grosso così. 

Direi che il primo capitolo del libro l’abbiamo scritto. Grazie Sora Rina per avermi raccontato un po della tua Storia, che poi è anche la nostra e per averlo fatto sorridendo. In tutti i modi, ce l’hai fatta.

Di Chiara Civitarese

Immagine di copertina di Marco Bertinelli

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