Binario 1

“Ma che vuoi che ce fanno, mica ci vorranno ammazzare tutti, mica ci ammazzeranno tutti”.

Attenzione. Il treno 8966 delle ore 12 e 30 diretto alla stazione di Auschwitz è in partenza al binario 16. Attenzione, allontanarsi dalla linea gialla. Prendo posto. Mi aspettano quasi venti ore di viaggio. Accendo il computer e scrivo di lei… scrivo per lei.

“È stato un giorno che mi è rimasto impresso, non solo nel cuore ma anche negli occhi: la mattina del 16 ottobre 1943“.

Un sabato mattina freddo e piovoso. Quasi un centinaio di soldati tedeschi, con la collaborazione di funzionari del regime fascista, circonda all’alba il quartiere ebraico di Roma. Il rastrellamento coinvolge anche i quartieri di Trastevere, Prati e Monteverde. I 50 kg d’oro raccolti dalla comunità ebraica non sono serviti a garantirle l’incolumità. Qualche giorno dopo Kappler ordina il rastrellamento casa per casa di donne, bambini, anziani e uomini. 1259 persone.

“Verso le sei cominciammo a sentire rumori pesanti e voci che gridavano in tedesco di uscire dalle case. Quando portarono via me e la mia famiglia i tre quarti delle persone del ghetto erano già state portate via. Scesi da casa con i fucili puntati e ci misero in fila dicendoci sempre che era per il nostro bene. La mia sorellina di cinque anni si stringeva con gli occhi impauriti al collo di mia madre. Usciti dal ghetto ci fecero salire su dei camion”. 

Quei camion sono diretti al Collegio Militare a via della Lungara. Per due giorni quelle donne, quei bambini, quegli anziani e quegli uomini rimangono chiusi, senza cibo né acqua, e da lì, dopo il rilascio di alcuni di loro, portati alla stazione Tiburtina e ammassati su un convoglio di carri blindati in partenza al Binario 1. Destinazione Auschwitz-Birkenau.

“Quando ci fecero salire su quei grandi treni, solo allora capii che molti di noi non sarebbero tornati. Viaggiammo ammassati per circa tre giorni in un vagone senza sapere neanche l’ora, perché prima di salire ci avevano preso tutte le cose di valore. Dentro al treno eravamo l’uno attaccato all’altro e non c’era neanche l’aria per respirare. L’unico ricambio d’aria era una piccola fessura sul lato destro del vagone. La gente era costretta a fare le urine e le feci nel posto in cui si trovava. Sul carro bestiame mi cominciavo a sentire male, così mia madre mi disse – vabbè ora che arriviamo ci sarà un dottore per farti dare una guardata, ma che vuoi che ce fanno, mica ci vorranno ammazzare tutti, mica ci ammazzeranno tutti. Dopo sei giorni di viaggio il treno si fermò, molta gente era morta per assideramento; quando aprirono i vagoni la luce ci accecò perché eravamo sempre stati al buio. Due soldati spingendoci con i fucili ci fecero scendere dal treno: le donne furono avviate da una parte, gli uomini dall’altra. Io avevo in braccio mia nipote, intanto un tedesco ci aveva detto di metterci in fila cinque per cinque. Mia sorella mi fa:

 – damme sta creatura –

– Ma sta bona, mo s’è calmata, falla sta in braccio a me – 

– Ma no, dammela a me – 

Mentre c’è st’affare tra me e mia sorella passa Mengele, ha aspettato che mia sorella prendesse la creatura e mi disse di andare fuori dal rango. Poi disse di uscire fuori dal rango anche all’altra sorella quella più giovane e mia madre, mia sorella e la creatura sono andate dall’altra parte. Non ho avuto neanche il tempo di salutare mia madre. Da quel momento non le ho viste più” 

Il capitano Josef Mengele, chiamato l’Angelo Bianco per il camice che indossava mentre sceglieva chi avrebbe dovuto lavorare, finire nelle camere a gas o essere oggetto dei suoi esperimenti. Chiamato per questo anche l’Angelo della Morte.

“Mi prendono e mi mettono dentro una cameretta. Vedo un letto, un lavandino, un bagno, una bacinella con l’acqua. E questa che me lava, me custodisce, me da la camicia da notte. Penso: ma ‘ndo sto? Che me sta a succede? Forse saranno le ultime volontà. Non capivo niente. Ho dormito e la mattina dopo ho capito quello che mi succedeva perché mi hanno portato a fare gli esperimenti da sto dottore, sto Mengele. Gli urli, gli strilli, i medicamenti molto dolorosi. A me m’hanno sperimentato sulla scabbia e sul tifo. La scabbia è stata una cosa atroce. Ero tutta una piaga, persino dentro le orecchie c’avevo le piaghe”.  

Le sperimentazioni chimiche che si effettuano nel campo sono di molti tipi: esperimenti di vaccinazione, castrazioni chirurgiche, sterilizzazioni, raggi X, esami sulla cura ormonale dell’omosessualità e, principale ossessione di Mengele, esperimenti su coppie di gemelli monozigoti. La visione biomedica estrema, combinata alla struttura totalitaria del regime nazista, ha permesso la realizzazione di un programma fondato su una visione di controllo assoluto dei processi biologici attuato sugli internati nei campi di sterminio.

“Lì per lì noi non sapevamo niente di quello che stava succedendo, eravamo storditi: due giorni al collegio militare, sei giorni di viaggio, la fame, la sporcizia che ci si era formata addosso, il numero 66210, la tosatura dei capelli, la doccia, il vestiario, perché ci avevano spogliate nude appena arrivate. A notte fonda fummo portati in grandi baracche con dentro persone che sembravano scheletri. Allora cominciai a capire che l’incubo forse non sarebbe mai finito. Alla mattina, quando ci svegliavamo, c’era prima di tutto l’appello. Tutta la baracca fuori, in ogni baracca c’erano più di mille persone, anche 1.500. Tornando indietro, dopo l’appello, distribuivano una specie di minestra che pareva proprio acqua. Non avevamo il cucchiaio e così abbiamo fatto ogni dieci un cerchio. Ogni dieci un sorso per uno, a giro. Dopo l’appello si tornava in baracca, stavamo tutto il giorno lì, e poi di nuovo l’appello al pomeriggio. Gli appelli duravano ore, perché contavano tutto il campo, migliaia e migliaia di persone. Siamo arrivate che era la fine di ottobre e una mattina ci siamo svegliate trovandoci sommerse dalla neve, non ci eravamo accorte di niente. Eravamo sempre rasate, vestite poco, e cominciavano i primi raffreddamenti, bronchiti, polmoniti. Siamo andate avanti così. Poi ci portarono a lavorare. Erano lavoracci, lavori per farci morire: spalare la neve dalle rotaie, costruire baracche, non erano lavori di rendimento. L’inverno era tremendo, si moriva”. 

Ma l’inverno del 1945 è diverso dagli altri inverni. Le esplosioni sono sempre più frequenti: l’Armata Rossa è alle porte. Settimia, con altri internati, marcia in condizioni disumane fino al campo di Bergen Belsen. La “marcia della morte” la chiamano. Per cancellare le tracce dei loro crimini i nazisti hanno fatto saltare i forni crematori. Il 27 gennaio le truppe sovietiche della Prima Armata del Fronte Ucraino, comandata dal maresciallo Koniev, abbattono i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz. Il 27 gennaio è stato scelto dall’Onu come il Giorno della Memoria.

Il treno si ferma. Sono arrivata. Spengo il computer e mi appresto a scendere. Inizia la mia visita al campo di sterminio di Auschwitz, il più grande costruito dai nazisti e comandato dal tenente colonnello delle SS Rudolf Hoss. Qui morirono per percosse, esecuzioni, torture, estenuanti condizioni di lavoro, freddo, fame, malattie, criminali esperimenti medici o nelle camere a gas e nei forni crematori circa 200 mila persone.

ARBEIT MACHT FREI

IL LAVORO RENDE LIBERI

Durante la Seconda guerra mondiale i nazisti istituirono più di mille ghetti e più di cinquanta campi di sterminio in quasi tutti i territori occupati. La stima dei prigionieri portati all’interno dei campi è di 9 milioni, 715 mila e 700. Persero la vita in condizioni disumane prigionieri di guerra sovietici, rom, disabili, omosessuali, anti fascisti, massoni, afro europei, testimoni di Geova e circa sei milioni di ebrei.

“Ma che vuoi che ce fanno, mica ci vorranno ammazzare tutti, mica ci ammazzeranno tutti. Mia mamma non ci ha creduto mai, e invece ci hanno proprio ammazzati tutti”. 

Il mondo deve sapere”, mi disse quando la intervistai Settimia Spizzichino, l’unica ebrea del Ghetto tornata viva dal campo di sterminio di Auschwitz.

“Il mondo non può dimenticare”, pensai una volta finita la visita al campo di concentramento di Auschwitz.

Da allora non ho mai smesso di raccontare questa Storia disumana.

Di Chiara Civitarese

Immagine di copertina di Marco Bertinelli

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